Tema: Quello che abbiamo preso e mangiato
Canto iniziale: Scriviamo a voi
Lc 22,14-19
Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio». Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me».
Commento
Gesù prende posto a tavola con i suoi. Questo fatto era accaduto molte volte con loro e con tanti altri ma per le autorità religiose rappresentava un problema, perché relativizzava le norme tradizionali della purezza e faceva del pasto un incontro con tutti. Così Gesù, invece, affermava con i fatti che credere in Dio non era una cosa che potesse diventare ostaggio delle leggi morali e sociali.
Gesù sceglie la convivialità come il tipo di relazione con cui far fare esperienza a molti dell’amore e del perdono di Dio che spinge a cambiare vita. I pasti erano per lui atti performanti, con cui rendere attuale il progetto di comunione che predicava e con cui rendeva attuale la comunità e il regno di Dio.
Quelle tavole a cui aveva preso parte erano dunque il segno che dove c’era lui era avvenuta la liberazione e per chiunque era accessibile la salvezza.
Ora, per gustare i pasti, è necessario smettere di divorare, rallentare, mangiare con piccoli bocconi. Rallentare nel mangiare permette di rallentare anche i ritmi interiori e di ascoltare gli altri e favorisce la contemplazione che avviene attraverso le papille gustative.
Gesù fa un’operazione importante: lega pasto e desiderio. Non voleva saziarsi. Il suo pasto era quello della condivisione di ciò che aveva nel cuore, dei suoi sentimenti, del dono di se stesso.
Possiamo chiederci: che cos’era il pasto per Gesù? La piena condivisione della propria vita e di se stesso con i suoi. Per realizzare questo desiderio è disposto al digiuno fino al compimento del Regno.
Allora per noi la domanda è: qual è il mio desiderio a tavola? Quel desiderio profondo che non dipende da nessun possesso e da nessuna necessità? Quello che non coincide con la consumazione di cibo, di esperienze e di fami, ma con l’orizzonte del mio essere unico e irripetibile? Il desiderio profondo che coincide con la mia interiorità ed esteriorità?
Molto spesso cerchiamo la sazietà invece di dare risposa al desiderio profondo e per questo motivo diventiamo pieni di noi, ingombranti, sempre meno capaci di movimento, più statici nella nostra vita.
Tutte le volte che cerchiamo la sazietà più che il desiderio, paghiamo un prezzo altissimo, perché imprigioniamo il nostro desiderio e guadagniamo una insoddisfazione latente che prende sempre più corpo.
Il desiderio profondo è caratterizzato, per definizione, da una mancanza, da un’insoddisfazione, che però ci proietta verso la pienezza. Il desiderio vero non si sazia, ma si approfondisce. Altrimenti la nostra vita diventa piatta, vuota e ci conduce a una voracità sonnambula, di cui non ci rendiamo conto.
Per fare questo abbiamo due possibili strade:
- Il digiuno: è un modo simbolico e reale che dice che la nostra vita è altro rispetto alla possibilità di riempire le mancanze e che è altro dal saziarsi. Perciò la promessa di felicità non si esaurisce nel saziarci. Il digiuno dei cristiani è un modo per avvicinarsi agli altri, verso la comunità, perché riattiva la capacità di condivisione e dono.
- Entrare in se stessi: è cercare a fondo nel polverone di emozioni che viviamo, guardandolo con altri occhi. Anche il Signore quella sera aveva un dolore: quello del peccato del mondo, per cui ha dato la propria vita. Entrare in noi stessi significa decidere che cosa fare del nostro dolore, per restituire la libertà a noi stessi e agli altri che ci sono intorno.